Francesco Rovero Ricercatore Fototrappolaggio

La storia di Francesco Rovero

Indice dell'articolo

Ciao Francesco, piacere di conoscerti e benvenuto. Iniziamo con le presentazioni:

Mi chiamo Francesco Rovero e dal 2019 sono ricercatore e docente in ecologia al Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze. Prima ho lavorato al MUSE di Trento dove principalmente seguivo un programma di ricerca e conservazione in Tanzania, tutt’ora attivo.

Da molti anni mi occupo di progetti di studio e protezione della biodiversità con un focus sui mammiferi, e utilizzo molto il fototrappolaggio.

Sei anche autore di un libro sul fototrappolaggio, vero?

Si, “Camera Trapping for Wildlife Research”, uscito nel 2016 per la casa editrice inglese Pelagic Publishing, che ho editato con un collega svizzero, Fridolin Zimmermann, e scritto con lui e altri autori.

E’ ad oggi uno dei pochi libri dedicato specificatamente all’uso del fototrappolaggio per studi faunistici, anche se la letteratura sta crescendo moltissimo e esistono alcuni altri manuali specifici.

Come stanno cambiando le fototrappole?

Le fototrappole in realtà non molto, la tecnologia di base più diffusa (che ha un sensore passivo di calore e movimento e flash a LED) è la stessa da almeno 10 anni, mentre quello che sta davvero cambiando è la gestione delle immagini e dei dati ad essa associati, ad esempio con l’applicazione dell’intelligenza artificiale per riconoscere le specie, e perfino gli individui di specie con manto molto variabile, come i felini.

Futuri sviluppi si vedranno sia nell’hardware, per esempio avremo macchine che rilevano il segnale termico o che fotografano a 360°, che nel software, con la capacità di analizzare le immagini per rilevare la distanza dell’animale dalla macchina e altri parametri utili per analisi ecologiche specifiche.

Ci sono tanti modelli attualmente, per uso professionale io da sempre prediligo le Reconyx, che però sono costose…

In quanti ambienti hai fototrappolato?

Ho avuto la fortuna di usare il fototrappolaggio in 4 continenti. Dal progetto in Tanzania, in foreste tropicali, dove ho lavorato dal 2002, alla Mongolia dove dal 2015 con alcuni colleghi seguo un progetto sul leopardo delle nevi, un’esperienza bellissima.

Immagine di gatto dorato (Caracal aurata), fototrappolato per la prima volta in Tanzania nel 2018.

Ho anche partecipato a un progetto di ricerca in Amazzonia per conto di un’associazione italiana (Associazione Amazzonia) che si occupa di sviluppo ambientale, e abbiamo studiato la fauna con le fototrappole in un’area remota lungo un affluente del rio Negro.

Infine l’Italia: dal 2011 con il MUSE abbiamo sperimentato l’uso delle fototrappole per studiare il comportamento di marcatura degli orsi sugli alberi. Ma è dal 2015 che, sempre in trentino, abbiamo avviato con diversi colleghi del MUSE (e dal 2019 con Firenze) un progetto sistematico di monitoraggio della fauna con le fototrappole che credo sia molto interessante.

L’approccio è mutuato da un protocollo sperimentato da una rete di aree di studio ai tropici, e lo stesso protocollo lo abbiamo avviato come Università di Firenze nel 2020 nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, e con il MUSE nel Parco Naturale Paneveggio-Pale di San Martino. Un collega di Pisa, il prof. Alessandro Massolo, ha avviato un progetto simile nel Parco Regionale delle Alpi Apuane.

Raccontaci come si struttura questo progetto:

Questo programma si basa nell’identificazione di almeno 60 siti di monitoraggio di 4 kmq di dimensione dove in ogni cella piazziamo una fototrappola per 30 gg in estate/autunno, realizzando così una griglia regolare di siti di campionamento.

Non occorre disporre di 60 macchine, se ne può mettere due gruppi di 30 in sequenza, ma è importante che le macchine siano tutte dello stesso modello e possibilmente di media/alta qualità. Ripetendo ogni anno questo protocollo possiamo confrontare i dati e analizzare dei trend delle popolazioni nel tempo.

L’obiettivo è avere dati quantitativi sull’intera comunità di mammiferi, diciamo dallo scoiattolo fino agli ungulati e ai grandi carnivori come orso e lupo. Al contempo rileviamo il passaggio antropico e dei veicoli, ovviamente non a livello di individui o singoli passaggi di mezzi ma di complessiva frequentazione antropica dei siti.

I dati che otteniamo si prestano ad analisi “robuste” di ecologia delle specie e dell’intera comunità: da semplici indici di abbondanza relativa delle specie a stime di parametri che informano sull’abbondanza delle specie e della comunità, e che nel complesso ci danno un quadro dello stato di salute delle popolazioni animali, ovvero delle loro preferenze ambientali, trend nel tempo e vulnerabilità al disturbo.

Il mio obiettivo è di facilitare l’avvio di una rete nazionale per monitorare la mammalofauna in Italia tramite una serie di siti che adottano un protocollo comune. I quattro progetti citati sono, spero, un primo nucleo di questa rete…

Com’è nato questo protocollo?

E’ un approccio piuttosto standard per studi ecologici dove occorrono dati consistenti e da molti siti. Come accennato, deriva da una rete di siti di studio nei tropici chiamata “Tropical Ecology, Assessment and Monitoring”, ma il protocollo è stato poi adottato per ricerche in decine di altre nel mondo.

Questo protocollo si adatta alle esigenze e particolarità della fauna?

Certo ogni specie (come ogni territorio) potrebbe richiedere delle variazioni al protocollo standard, ma il punto fondamentale è proprio quello di cercare di applicare un protocollo comune per specie molto diverse e su aree diverse, senza prediligere una specie o un’altra.

Questo comporta dei compromessi: ad esempio nella spaziatura (le macchine in genere sono a circa 2 km di distanza l’una dall’altra) e nel posizionamento delle macchine (il protocollo prevede il settaggio su normali sentieri e su strade forestali, senza andare a cercare siti che riteniamo a priori ideali per una specie particolare).

Questi criteri possono non essere ottimali per tutte le specie, ma se riusciamo a standardizzare l’utilizzo allora possiamo comunque confrontare i dati in modo scientificamente attendibile, a prescindere dal fatto che alcune specie saranno “catturate” relativamente meglio di altre.

Una curiosa immagine di un giovane leopardo che segue incautamente un istrice nei Monti Udzungwa della Tanzania.

Quali metodologie e quali strumenti utilizzi per analizzare i dati:

Considera che ogni anno possiamo avere più di 50.000 immagini da 60 siti campionati in una singola area di studio. Con questa mole di dati è impossibile la gestione manuale. Noi usiamo un software livero che è Wild.ID che legge immagini, i metadati delle immagini e le raggruppa per singolo passaggio (avendo in genere scatti multipli), facilitando così l’annotazione delle immagini, ovvero la identificazione della specie in ogni immagine, che è l’unico passaggio che serve fare “manualmente”.

Inoltre è in sperimentazione una piattaforma che si chiama Wildlife Insights, che è sostenuta da Google, dove stanno confluendo a livello globale i dati di moltissimi progetti di fototrappolaggio, cui tutti potranno accedere.

Questa piattaforma oltre a gestire i dati in ingresso nello stesso modo di Wild.ID permette anche l’identificazione automatica delle specie, che è già una realtà ben sperimentata, e perfino la produzione di analisi automatiche di sintesi, quali ad esempio il numero di specie, mappe di distribuzione, analisi dell’attività giornaliera delle specie, e molto altro.

Con un collega del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Firenze abbiamo appena avviato un progetto biennale di costruzione di una piattaforma italiana per la gestione dei dati di fauna da fototappolaggio che si appoggerà a Wildlife Insights, ma svilupperà funzionalità nuove, quali la gestione dei video e nuove analisi di parametri delle immagini e dell’area monitorata dalla singola fototrappola, utili per analisi ecologiche quali la stima dell’abbondanza delle popolazioni.

Spero che questo progetto rappresenterà una bella spinta verso quella rete di siti che menzionavo prima, perché la parte di gestione e analisi dati è quella in genere più trascurata e complessa per i moltissimi ricercatori, appassionati e enti che usano le fototrappole in Italia e nel mondo.

Quanto è importante il fototrappolaggio per la ricerca scientifica?

Moltissimo: negli ultimi 15 anni il numero ricerche scientifiche che usano il fototrappolaggio è cresciuto in modo esponenziale, e oggi nel mondo ci sono migliaia di progetti che lo usano e decine di milioni di immagini prodotte.

Il fototrappolaggio è diventato lo strumento standard per studiare la fauna, perché poco invasivo, relativamente semplice da usare, non molto costoso, e che permette di ottenere una grande mole di dati. Il boom del fototrappolaggio per studi scientifici in ecologia animale negli ultimi 10 anni è simile a quello permesso dalla telemetria a partire dagli anni 70.

Poi il fototrappolaggio si presta a moltissime applicazioni, ad esempio per coinvolgere i cittadini nei progetti di ricerca. Nei progetti che ho citato sopra l’appoggio di volontari è per noi prezioso, ma è però molto importante che ci sia un coordinamento da parte dei referenti scientifici e istituzionali.

Come ogni tecnologia anche il fototrappolaggio ha i suoi limiti, e serve un utilizzo consapevole. L’uso indiscriminato e non finalizzato a scopi scientifici, o comunque non coordinato con chi usa questo strumento in modo professionale, a mio parere non è sempre auspicabile, perché si corre il rischio di creare comunque un disturbo alla fauna, come ad esempio quando si usano esche o flash invasivi, o banalmente perché dati potenzialmente utili possono rimanere inutilizzati.

Un aspetto critico e giustamente sempre più sentito è poi la violazione della privacy delle persone che passano nei siti dove mettiamo fototrappole, per cui il loro piazzamento deve sempre essere autorizzato e svolto in accordo con l’ente preposto (ad esempio gli enti parco, o i proprietari di aree private), e le aree monitorate devono sempre essere segnalate con apposita tabellonistica.

Su quali caratteristiche scegli una fototrappola rispetto ad un’altra?

A mio parere il trigger time (l’intervallo tra quando l’animale entra nella visuale della macchina e quando questa scatta) è la caratteristica più importante per studi scientifici.

Macchine performanti, come le Reconyx che citavo prima, scattano a 0.1-0-2 secondi; sono molto buone (e più economiche!) anche le Browning e poi le Bushnell. Ma ovviamente tutto dipende dall’utilizzo che si fa di questi strumenti.

Con chi hai iniziato a fare fototrappolaggio?

Sono stati di grande ispirazione due amici di lunga data: Duccio Berzi, che è stato un pioniere del fototrappolaggio in Italia (sue le prime foto di lupo nel 1999, ad esempio), e Gianluca Serra, che a fine anni ’90 usava in California le fototrappole per studiare la lince rossa e i coyote.

Poi è grazie a Jim Sanderson, biologo americano esperto di piccoli felini e poi altri colleghi in Tanzania, che nel 2002 ho mosso i primi passi con questi affascinanti strumenti nelle ricchissime foreste dei Monti Udzungwa della Tanzania, dove abbiamo fotografato per la prima volta in natura diverse specie, quali il cefalofo di Abbott, e nel 2008 abbiamo perfino trovato una specie nuova, il sengi, o toporagno-elefante gigante. Ma questa è un’altra storia…

Una rara immagine del cefalofo di Abbott (Cephalophus spadix), fotografato nelle foreste montane della Tanzania nel 2002. Sono state le prime immagini in natura per questo ungulato.

Grazie mille Francesco per questa bellissima intervista, complimenti per i tuoi progetti e in bocca al lupo per le tue ricerche!

Grazie per la lettura e buon fototrappolaggio.

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